IO MI RACCONTO
Ricordi, aneddoti, memorie, racconti, storie vissute o ascoltate 


Dedicato a mio nonno "al Pietro dal Balocio"

SBROUNDÈ

Sbroundè: non so se l’ho scritto in modo corretto secondo la grafia tradizionale monferrina. Ho consultato gli scritti lasciati dal nostro appassionato scrittore e poeta Nino Oddone che tanto ha fatto in ricerche di archivio e studiato la scrittura e la fonetica del dialetto granese. Perdonatemi. 

Tutto è iniziato un pomeriggio di metà marzo del 2021. Ero a Grana nella mia casa, più precisamente nel prato dove mi piace perdere tempo e prendere tempo e respirare lo spazio ampio e aperto. Ogni occasione è buona per ascoltare il silenzio, togliere due fili d’erba al roccioso, tagliare un rametto secco al rosmarino, osservare le piantine stantìe delle fragole senza germogli, raccogliere una foglia di alloro, due pezzetti di timo, una punta di salvia, spostare un sasso, ripulire i melograni dagli afidi.

Adoro stare fuori e godere l’aria libera, fredda e pungente dell’inverno oppure afosa e bollente del mese di luglio. Le stagioni intermedie sono le migliori perché non fa troppo caldo né troppo freddo e la campagna è spettacolare, dà il meglio di sé.

In primavera i verdi cambiano di continuo, mille sono le sfumature per l’aria che muove gli steli e per i giochi di luci e ombre che il sole proietta sulle gobbe delle colline. Ed è così rilassante perdersi con lo sguardo, all’orizzonte, fino alle lontane creste liguri. In autunno i pampini si vestono dei colori caldi in una gamma non riproducibile dal giallo al marrone scuro passando per il rosso fuoco. 

Quel pomeriggio ero nel prato non da sola ma con mio marito e con un nostro amico che ci aiutava a potare alcuni alberi di ulivo particolarmente rigogliosi e, purtroppo, a tagliare un albicocco perché troppo malato e improduttivo. Il tempo bello consentiva di fare queste operazioni senza fretta e in libertà di movimento.

In pochi minuti la motosega ha lasciato sul terreno una montagna, seppur soffice, di rami e rametti intricati, frondosi e pallidi di un verde “olivo”. Che farne? Caricarli tutti sul trattore e portarli in campagna nel “bosco mio” per incenerirli senza pensarci più? No, non è da me. Io sono attenta conservatrice ecologica perciò, senza non poche discussioni, ho preso forbicioni e accetta e, felice come una pasqua, mi sono messa a lavorare, per me giocare.

La mente sciolta mi ha immediatamente condotta a pensieri mirati. Il gesto dell’accetta, il mio piuttosto incerto e non netto ma non importa, che mentre scende sul ramo lo lascia nudo dalle foglie e dai ramettini, mi ha riportato a mio nonno. Mio nonno era contadino felice e convinto che il suo fosse il mestiere più bello al mondo, e allo stesso tempo era ben consapevole che non era redditizio ma a lui non importava, era contento di ciò che aveva e gli bastava. Teresina, sua moglie, più scostante e fredda, si adeguava.

Mio nonno era il "Pietro dal balocio". Perchè si chiamasse così non lo so e non lo saprò mai perché ho perso la memoria storica, mia mamma. Ma se qualcuno ancora la conserva, sarò contenta di sapere. Pare da “balos” cioè vivace, birichino, dispettoso.  Tutti in paese avevano un soprannome, era una tradizione e anche un modo pratico che consentiva di individuare immediatamente la persona. Appena nato il bambino aveva già il suo bollino distintivo, proprio come le banane e le mele. Chi li inventava? Non si sa, certamente una mente simpatica, fervida e creativa, anzi diverse menti nel tempo.

Ce n’erano di quelli proprio originali e curiosi. Ricordo “cui dal pichin”, “al trai cu”, “cui ‘dl ancijua”. Se ci penso ancora adesso mi vien da ridere. Allora era normale. Poi col passare degli anni questa tradizione consueta si è andata via via affievolendo, ha perso colore e carattere fino a lasciare il posto al solo cognome. 

Il Pietro era un omone alto, un bel faccione simpatico, colorito e rugoso in un corpo robusto. Amava mangiare bene e bere vino soprattutto in compagnia di altri uomini, rigorosamente solo maschi, in cantina ora di uno ora dell’altro, nelle feste comandate.

Il Pietro era un gran lavoratore. Mi hanno sempre impressionato le sue mani, che dico, le sue manone. Due morse forti, nodose come i tralci della vite vecchia, callose e ruvide. Quando mi accarezzava, la pelle tenera del mio viso di bambina diventava rossa come se mi fossi sfregata con un panno abrasivo. Però quanto mi piacevano le sue coccole!

Proprio con quelle manone faceva di tutto, in tutte le stagioni. Dalla primavera all’autunno coltivava le vigne, la sua passione e il suo sostentamento. Si spostava da casa alla campagna, ricordo Moundalalbra e l’Araj, sul carretto trainato dal suo Biound, il cavallo ungherese di cui andava fiero. Per stare più comodo si era costruito un rudimentale seggiolino di legno sul davanti del carro in modo tale da tenere le briglie che non usava quasi mai, tanto il cavallo conosceva la strada a memoria e, dietro, ci caricava gli attrezzi: la sapa, al baij, al rastà, al fouset, la pouari-na, la couu, i foursinoun. A volte si spostava col biroucin, veloce e leggero, la sua fuoriserie, ma raramente.

La Teresina quasi mai lo accompagnava, non le piaceva lavorare in campagna. Di malavoglia andava d’estate nei prati a raccogliere il fieno in lunghe file perché fosse più semplice caricarlo sul carro e poi a rastrellare quello rimasto, non si sprecava nulla.

Quindi di mattina, dopo una buona abbondante colazione, il Pietro andava a fare i mestieri a seconda della necessità del momento: pouè, gavè al rame, piantè, tirè i filfar, groupè al che-ne. E poi ancora dè al vardaram, sgarzoulè e sperè c’al tampastaissa nen.

Lavoro lungo, metodico, ripetitivo e faticoso quello nella vigna prima di raccogliere! Non è un mestiere che si improvvisa ma è frutto della passione di anni di esperienza e conoscenza del terreno e del territorio. Già! La vendemmia! La vandummia! Mi si affastellano negli occhi fotogrammi nitidi e nel cuore un misto di emozione, contentezza, nostalgia.

Per primo il rito del pranzo al sacco nella cavagna di vimini internamente rivestita di un asciugamano grande rigorosamente bianco e dentro i fricioulin vërd, al grissie coun la bourbounsola, la tovaglia bianca stesa sull’erba, più o meno in piano, e noi seduti tutti intorno con le mani sporche marroni e viola, le dita appiccicaticcie.

Alla raccolta dell’uva partecipavano uomini, donne, anzi più famiglie amiche perché aiutarsi vicendevolmente rendeva il lavoro meno faticoso, veloce e festoso. Ciascuno raccontava qualcosa e intanto i “foursinoun” tagliavano e si riempivano “ a l’ijasie” Non mancavano le battute per le barzellette che mio nonno raccontava mentre rideva felice e faceva ridere chi era dall’altra parte: c’era chi stava più scomodo a muntà e chi era più comodo a và. Mi rivedo io che col secchiellino e le forbicine, appositamente piccole, correvo sempre davanti a tutti per raccogliere i grappoli più belli e facili e divorare gli acini più grossi. Anche le labbra diventavano viola….forse anche la pipì.

 Il “Biound” sudatissimo, guidato da un altrettanto uomo sudatissimo, sovente anche mio fratello seppur molto giovane ma gagliardo, andava su e giù d’la carsà molto ripida per trascinare grossi contenitori, almeno tre, sul lissò ( una specie di carrettino con gli sci ideato e costruito in casa) perché l’arbe da riempire era sulla strada in alto. Le uve pesavano e più si scendeva a valle tra i filari, più la strada da percorrere in salita era lunga e faticosa. In genere si faceva un arbe pieno entro mezzogiorno e un secondo nel pomeriggio. E poi portarli a casa, pigiare l’uva a piedi nudi o con gli stivali e finalmente versare il mosto nel tino, in dialetto ti-na femminile.

Giornate lunghe e faticose ma dense, molto dense di vitalità e vita. Il Pietro aveva i suoi orari che rispettava rigorosamente. Lavorava di buona lena fino a che...don don don, dodici rintocchi ritmati e monotoni si diffondevano nel silenzio, dal campanile alla terra intorno: il segnale che bisognava smettere subito e tornare a casa. Per lui la campana era come la sirena della fabbrica per gli operai. Sua moglie, anche lei era attenta al mas’dì per far trovare la tavola apparecchiata e la minestra fumante, meglio se un bel minestrone coi fagioli borlotti. Il ritorno a casa era sempre piuttosto frettoloso e impaziente. 

Le ciliegie: al cirese

Ma all’inizio di giugno e per una ventina di giorni consecutivi, il nonno trovava sempre il tempo per fare un’operazione che non dimenticherò mai, ce l’ho scolpita nel cuore: fermava il carretto davanti a casa mia , che dava proprio sulla strada, il bar Sport, e mi lasciava rami di ciliegie appena strappati dal suo enorme albero. Non aveva tempo per raccoglierle una ad una e quasi l’albero si abbassava per facilitarlo. Un buon pranzo e un sonnellino pomeridiano lo rinfrancavano dalla fatica e assicuravano le forze per continuare fino a sera.  

La domenica: la douminica

La domenica non si lavorava, se non accudire gli animali la mattina presto. Era il giorno del riposo, il giorno per mettere il vestito “buono” e andare a messa, fare quattro chiacchiere con gli altri uomini sul sagrato della chiesa, mangiare bene e al pomeriggio andè a l’osto per giocare a carte, bere un buon bicchiere di vino, anche due, raccontarsela del più e del meno e ridere anche. Io lo ricordo proprio sorridente e allegro.  

L’inverno: l’invar

Era il tempo tranquillo del riposo della campagna, degli animali e dei contadini. La vigna aveva dato i suoi frutti, il grano era stato seminato, il fieno e la paglia in cascina. Il vino in cantina.

Giornate brevi, fredde e anche nevose. Già, la neve! Una gioia per i bambini che, mentre andavano a scuola con gli stivali e le mutande di lana, facevano a palle di neve riparandosi il viso con la cartella che non era così pesante come adesso. Un po’ meno gioiosi i papà e i nonni. Bisognava spalare al mattino presto per fare il passaggio davanti casa e anche sulla strada in attesa che passasse la lesse, cioè lo spartineve che arrivava con calma, molta calma. Tuttavia la neve era la benvenuta perché “ sotto la neve, grano”

Le donne lavoravano all’uncinetto, facevano golfini ai ferri, rammendavano calze, camicie e blous per la campagna. Tante sapevano cucire bei vestitini e gonne con semplice stoffa e anche ricamare con maestria tovaglie, lenzuola e centrini. La pentola coi fagioli bolliva sulla stufa che riscaldava la cucina e anche il forno dove si cuocevano le mele. A volte la zucca. Che buona!

Per gli uomini era il tempo calmo per fare i pali di cemento per le vigne, sistemare gli attrezzi, aggiustare le gabbie dei conigli, il pollaio o la finestra della stalla. Fare legna tempo permettendo, tagliarla di misura per la stufa e sistemarla con metodo al riparo nella legnaia. Così piano piano seccava ed era pronta per l’anno successivo. Ed è quello che ho fatto io. Tanti pezzetti di legna che ho sistemato più o meno per benino nella legnaia. Li userò per accendere il mio camino. Mentre bruceranno mi ricorderò di mio nonno e di quel tempo di bambina.

Nostalgia? Un po’ sì! Ho enfatizzato? Sì, certamente!

Ciao nonno ! La tua Ida